Le chiese, le masserie e le case antiche. Ma anche gli edifici pubblici, le palazzine e le villette costruite sotto la spinta di un timido benessere. Il terremoto non fece sconti.
In un minuto, alle 19,35 di domenica 23 novembre 1980, devastò paesi, uccise gente inerme: 2.700 morti accertati, novemila feriti. E centinaia di migliaia di senzatetto.
La scossa letale toccò il nono grado della scala Mercalli, sviluppando una potenza energetica pari a quella - calcolarono gli esperti - di quindici bombe atomiche del tipo usato per distruggere Hiroshima: una carica di 35 milioni di tonnellate di esplosivo. Il teatro della catastrofe è la dorsale appenninica tra l'Irpinia e il Potentino con epicentro individuato in un'area a 100 km da Napoli, trenta da Potenza e venti a nord-est di Eboli ed una espansione su un territorio di 15.400 kmq. sul quale sorgono 466 comuni e risiedono cinque milioni di abitanti, delle province di Avellino, Salerno, Napoli e Potenza.
Ma gli effetti del sisma si riverberano, con minore intensità, anche nel Casertano. Ferite le grandi città: Napoli, dove venti famiglie periscono nel crollo di un palazzo di via Stadera; Salerno, dove cedono le abitazioni degli anni del boom; Potenza e Avellino, dove crollano i centri storici. Ma sono i paesi-presepe delle zone interne, i più poveri ed emarginati dalle grandi direttrici dello sviluppo, ad essere travolti dalla catastrofe. Paesi come Lioni, Teora, Balvano, Sant'Angelo dei Lombardi, Conza, Valva, Colliano, Laviano, Pescopagano. Manlio Rossi Doria, meridionalista formatosi alla lezione di Giustino Fortunato, aveva definito quelle comunità con la metafora dell' "osso" per caratterizzarne la condizione di arretratezza in contrapposizione alla "polpa" delle prospere aree costiere. L' "osso" dopo i terribili sessanta secondi di quel 23 novembre divenne un immane olocausto.
fontr: www.midaweb.info |